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Verran per gli altri Estate, Autunno, Inverno, 
sempre sorriderà a te Primavera.
Rubato hai agli dei il segreto eterno
che ignora il crepuscolo e la sera.

Prima quartina apocrifo 171 da “ I Sonetti di W. Shakespeare,  tradotti e interpretati da Lorenza Franco”, Ed. La Vita Felice, 2000

.

 

 

di Vini di Versi

Il vino della vita

Viola, dorati, nero inferno,

tutti vi ho amati

generosi grappoli della mia giovinezza;

non posso pensare alla vita gaia

se non a voi.

 

Chicchi tondi, sodi come seni di giovinette,

oblunghi come quelli impudichi di donne fiorite

che allattavano al sole dorato dei balconi

miraggi arditi della nostra adolescenza inquieta;

mi ricordate una stagione felice

che non c’è più.

 

E se goloso assaporo i vostri umori

torno a rivedere le loro gambe impudiche

affondate dentro le bocche dei tini

superbamente allegre,

a spremere con le vesti alzate fino alla magica fonte

il nettare divino dalle vostre intrecciate ghirlande.

 

Oh, dolorosa passione

quali succhi stillanti

inebriavano di mille colori e trame

le bianche carni al mio sguardo estasiato!

Oh, incantate malizie

oh, assetata vita che prorompe,

quali insaziate arsure hanno placato

i vostri spruzzi sanguigni!

 

Scendevano propiziatori e grati

come doni di un dio benigno elargiti alla terra.

 

Dove siete finiti chicchi asprigni delle Fratte,

vi sgranavo come un sacro rosario

con bocca ingorda.

 

Nulla ho dimenticato

e ancora oggi vi amo con giovanile baldanza;

e quando verso nella mia coppa l’oro della vostra spuma,

all’ombra di un meriggio infuocato,

alla mia casa giungono da lontano i canti dei falciatori,

e le spighe danzano al lieve vento della marina.

 

E se l’impeto di un rosso esplode

- segno di antica passione -

nessuna vita manca alla mia festa.

 

Le sento in processione venire e disporsi là

attorno alla mia mensa ordinati

come mistici apostoli pronti per il rito:

e allora spezzo il pane e passo il calice buono

e la morte scompare e la menzogna e il sangue…

 

Nulla più di te

mio fedele compagno, mio benedetto complice,

mi riporta alla sacralità della mensa, alla terra dell’uomo,

anche a quello più abietto,

che rinserrato all’angolo oscuro della bettola mi sorride,

mentre stasera alzo il bicchiere e brindo

alla mia desolata vita

ed alla sua.

 

Angelo Gaccione, Milano (2000)